Dicembre 5, 2023

Riflessione sul significato del termine autostima e sulle sue implicazioni.

Il titolo è volutamente provocatorio.

Vorrei invitarti a riflettere sulla semantica della parole e a interrogarti sul significato che nel senso comune attribuiamo a certi termini senza affiancare loro una riflessione critica.

Ho autostima se stimo che il mio valore è basso? Ho motivazione se il mio motivo è “non fare nulla”? Ho consapevolezza se sono consapevole di non esserlo?

Domande come queste creano un piccolo cortocircuito, in cui il senso comune si scontra con il significato etimologico delle parole, generando in noi una sorta di paradossale spaesamento.

Paradosso e spaesamento sono utili alleati per la ricerca, teniamoli quindi per mano mentre cerchiamo risposte alla prima di queste domande.

Ho autostima se stimo che il mio valore è basso?

Come in altri articoli del blog, anche stavolta partiamo dall’etimologia del termine.

Il vocabolo autostima è formato dalla parola latina æstimare che significa “valutare”, sia nel significato di “determinare il valore di” sia nel significato di “avere un’opinione su” e dal prefisso auto con valore riflessivo “se stesso”.

In questi termini, dunque, l’autostima è la valutazione che una persona fa di se stessa.

Facciamo qualche esempio.

Se stimo il valore di una casa, avrò una serie di parametri di riferimento oggettivi (metratura, anno di costruzione, luogo…) in base ai quali darle un valore: la stima, che potrà essere alta o bassa (in riferimento a un parametro medio).

Se stimo il mio valore (auto-stima), avrò una serie di parametri di riferimento soggettivi in base ai quali mi valuto: la stima, che potrà essere alta o bassa (in base al mio metro di giudizio). Questa stima sarà inequivocabilmente un’auto-stima, per il semplice fatto che è su di me, proviene da me e segue i miei parametri.

L’autostima è dunque un costrutto variabile, che dipende da parametri soggettivi peculiari e che risente dei valori personali.

Questa semplice analisi etimologica genera due riflessioni sul termine autostima:

  • come possiamo attribuirle un significato condiviso, se per ognuno di noi “avere autostima” rappresenta qualcosa di differente?;
  • come possiamo attribuirle un significato prettamente positivo se, come abbiamo visto, avere “autostima” include sia averla alta che averla bassa?

 

Procediamo con ordine.

Quando si parla di autostima siamo abituati a dare per scontato ciò a cui facciamo riferimento. Chiunque legga questo testo è consapevole che esiste un significato condiviso della parola autostima e allo stesso tempo è in grado di attribuire un significato diverso a seconda della sua esperienza di vita e del suo punto di vista personale. Esempi di frasi che si sentono comunemente e a cui tutti i parlanti danno un significato condiviso sono:

“Beata lei che ha l’autostima alta.” “Dovrei avere più autostima, allora sì che starei meglio…” “Se avesse più autostima studierebbe di più…

Si parla di autostima come se tutti sapessero a cosa si fa riferimento, senza mai specificare a cosa si fa effettivamente riferimento. Questa modalità linguistica appartiene al senso comune.

Il senso comune è autoreferenziale, nel senso che si auto-legittima. Le persone concordano sul modo in cui si afferma che qualcosa è reale (avere autostima) ma non su ciò che è reale (cos’è l’autostima), che resta implicito.

Nel senso comune è la forza retorica dell’argomentazione che rende reale ciò di cui si parla. (Turchi, 2007)

La psicologia, pur usando il linguaggio ordinario, è una scienza e dunque si muove all’interno del senso scientifico. Gli enunciati di un discorso scientifico devono esplicitare i presupposti conoscitivi e i passaggi argomentativi che consentono di generare ciò che conosciamo. Nel caso dell’autostima, la psicologia deve esplicitare come possiamo conoscerla e quali significati assume a seconda dei contesti culturali e sociali. Il discorso si fa allora più complesso. In psicologia infatti l’autostima si considera un costrutto, ovvero un termine che non ha un significato unanime tra gli studiosi, ma risente della teoria adottata. Esistono infatti numerosi autori che hanno fornito una descrizione di questo costrutto. Una prima definizione del concetto di autostima si deve a William James, il quale la definisce come “il rapporto tra sé percepito e sé ideale”, ovvero il risultato che scaturisce dal confronto tra i successi che l’individuo ottiene realmente e le aspettative in merito ad essi. Alcuni anni dopo Charles Cooley e George Mead definiscono l’autostima come un prodotto che scaturisce dalle interazioni con gli altri, che si crea durante il corso della vita come una valutazione riflessa di ciò che le altre persone pensano di noi. Per lo psicologo Abraham Maslow, la necessità di avere una buona autostima è una della motivazioni umane fondamentali e gioca un ruolo importante nella gerarchia dei bisogni. Maslow afferma che le persone hanno bisogno sia di stima da parte degli altri che di rispetto per se stessi. Entrambi questi bisogni devono essere soddisfatti affinché un individuo possa crescere come persona. Margaret Hough parla di autostima come di qualcosa che può fortemente ridursi, o addirittura essere assente, quando nella vita di una persona si verifica precocemente o ripetutamente un trauma o un danno emotivo. Nathaniel Branden, psicoterapeuta statunitense, definisce l’autostima come la fiducia nelle proprie capacità di superare le avversità della vita e la convinzione di meritare felicità e successo, affermando i propri bisogni e desideri. Infine, lo psicologo Stanley Coopersmith fornisce la seguente definizione di autostima: “La misura in cui il soggetto crede di essere capace, significativo, degno di successo e valore. L’autostima è un giudizio personale di valore espresso negli atteggiamenti che il soggetto mantiene verso di sé.

 

Iudici e Fava affermano che

“l’autostima viene studiata come se appartenesse al medesimo piano epistemologico del corpo e vengono individuati legami causali laddove manca un riferimento ad un ente fisico”.

Ad esempio, sono frequenti affermazioni come: “Un trauma fa abbassare l’auostima”, “L’auostima porta alla realizzazione e al benessere” , “Uno studente che ha un’alta autostima studia di più”.

La categoria autostima è usata inoltre come se fosse un ente fattuale, misurabile lungo un continuum non meglio definito e indipendentemente dagli schemi conoscitivi di chi la utilizza. Ne sono esempi frasi come: “Devi lavorare per aumentare la tua autostima”, “Avere l’autostima bassa è pericoloso”.

autostima

 

La parola autostima viene usata come una metafora che consente di comunicare una serie di idee, concetti e vissuti che si danno per condivisi dalla comunità. Questa metafora, che nel senso comune funziona, in ambito psicologico richiede una riflessione profonda. Fare un percorso per “aumentare l’autostima”, in base a quanto abbiamo chiarito, non ha di per sé un significato univoco, se non all’interno del senso comune. Proprio perché la psicologia utilizza un linguaggio ordinario (quello che parliamo ogni giorno) e non usa un lessico settoriale (formule chimiche, leggi matematiche …), diventa complesso conciliare la necessità di comunicare in maniera efficace alla comunità e il rigore metodologico, che richiede di non mescolare senso comune e senso scientifico.

Durante i colloqui, sia con studenti sia con persone che si rivolgono a me per problematiche legate al ciclo di vita, spesso lavoro per aumentare la consapevolezza di quali parametri la persona usa per valutarsi (risultati scolastici, relazioni coi pari, canoni estetici…?) e rifletto insieme a lei su quali siano i suoi valori (amicizia, fiducia, onestà,). Questo lavoro non è mirato a “rafforzare l’autostima” come risultato, né a farla scorrere dal basso in alto su un continuum immaginario, quanto piuttosto a conoscere l’autostima come processo di attribuzione di significato valoriale a se stessi. In quanto processo di attribuzione l’autostima è personale, soggettiva, unica. La persona è la miglior conoscitrice della sua personale idea di “stima di sé”, è esperta di quello che considera il suo continuum, è capace di individuare punti di forza e di debolezza nel suo processo. Quando parlo di autostima, dunque, mi riferisco a questo processo personale, contestuale, variabile e riflessivo che non ha necessariamente un risultato predeterminato (non siamo sul piano matematico del 2+2=4, quindi non ha senso utilizzare formule come: + austima= + rendimento scolastico).

La domanda corretta non è più dunque: “Ho autostima se stimo che il mio valore è basso?”

bensì:

“Per stimare il mio valore che processo metto in atto, quali parametri uso, come li ho costruiti?”.

Riferimenti bibliografici

Turchi G.P., Della Torre C., (2007), Psicologia della salute, dal modello bio-psico-sociale al modello dialogico Iudici A., Fava M., (2010) Autostima: mito culturale o categoria scientifica? Mion C., Riflessività

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